La mia piazza Loggia

 

Pur trattandosi di un libro con molti “fratellini” nati precedentemente (una trentina), quello sulla strage di piazza della Loggia è stato per me il primo, nel senso che ho cominciato a scriverlo di fatto fin dall’indomani di quel maledetto 28 maggio 1974. Avevo 20 anni, ero fortemente impegnato politicamente, e quel giorno ha segnato la mia vita, anche perché conoscevo gli ambienti bresciani contigui a quell’area neofascista i cui militanti rappresentavano per me non avversari politici, ma nemici: in sintonia con quei tempi feroci. Un paio di anni prima dell’approssimarsi del 40° anniversario ho quindi pensato che fosse giunto il momento di produrre una narrazione dalle tante testimonianze, documenti, ricordi personali accatastati nel magazzino della mia memoria. Mi sono infine approcciato a questa con molto pudore, conscio di trattare un argomento delicatissimo. Dovevo inoltre liberarmi dei legacci ideologici che ancora condizionavano pregiudizialmente la mia visione della strage. Molti “cuori neri” li conoscevo, anche se – come si dice – s’erano rifatti una vita. Mentre lavoravo su quello che era ancora un brogliaccio degli argomenti, inaspettatamente, mi venne in soccorso il caso, sempre ben accetto quando è foriero di positività. Una sera a cena con una coppia cui ero legato da un’amicizia che risaliva all’adolescenza, scoprii che lei aveva avuto una storiella con Silvio Ferrari, che passava l’estate al lago per quella villa che la famiglia ha a Portese. Silvio che anche io conoscevo bene, anche se non ci frequentavamo per le diverse e oltremodo avverse (nemiche) appartenenze politiche. La mia amica mi raccontò quindi che un pomeriggio, mentre passeggiavano per il centro di Brescia avevano incontrato una persona, con cui Silvio s’era fermato a parlare. Quando le feci vedere alcune fotografie, la mia amica riconobbe quella persona in Ermanno Buzzi. Questa testimonianza mi fece saltare sulla sedia, perché sbugiardava clamorosamente chi continuava a sostenere che i due non si conoscessero e che quindi la morte di Silvio non fosse collegabile con l’ambiente di Buzzi. Dopo averlo anticipato sul Corriere, la donna è stata escussa dal ten.col Giraudo (venuto personalmente casa mia con i suoi uomini della Digos a prelevarmi per portarmi dalla mia amica) per il pm Piantoni, che ha aperto un nuovo filone d’inchiesta per la morte di Silvio Ferrari, con troppa disinvoltura derubricata come “incidente sul lavoro” (il tentativo di collocare una bomba presso la rappresentanza bresciana del Corriere, che all’epoca si trovava in piazza della Vittoria). Alla figura di Silvio dedico parecchio nel mio libro, convinto più che mai che la strage di piazza della Loggia passi per piazza del Mercato, dove il mio coetaneo (ci passavamo 4 giorni di differenza e anni luce a livello ideologico) era saltato per aria. Poi, mi venne in soccorso un altro “caso”. Marco De Amici – figura di rilievo del neofascismo milanese della Fenice, amico di Silvio Ferrari e di Pierluigi Pagliai (ucciso in sud America in circostanze misteriose e che conobbi a Salò, quando era un interno del collegio Sant’Orsola) – era stato un alunno di mio padre per Storia e Filosofia: era anche lui in quel collegio Tumminelli di Gardone Riviera che io avevo frequentato, diplomandomi due anni prima di lui (eravamo coetanei, ma lui era stato bocciato un paio di volte). Grazie alla stima con cui De Amici ricordava mio padre, riuscii ad avere un incontro, ottenendo una testimonianza preziosa per il libro e peraltro assolutamente inedita, visto che non aveva mai concesso nessuna intervista. La chiacchierata con lui mi servì per inquadrare una serie di situazioni che correvano lungo l’asse Milano-Brescia-Verona (Silvio faceva parte del veronese Anno Zero). Fra le testimonianze raccolte, quelle significative di Gian Ferrari, fratello di Silvio: Mauro, ingiustamente detenuto per 18 mesi con l’imputazione di aver partecipato alla strage, è morto da qualche anno, di Kim Borromeo, del neofascista bresciano arrestato con Giorgio Spedini nella cosiddetta Operazione basilico dell’allora capitano Delfino, del giudice Gianpaolo Zorzi, che più di chiunque è andato vicino a far combaciare la verità storica con quella giudiziaria. Infine, la prova che le alte sfere del Msi non fossero all’oscuro di quanto stava accadendo: pur avendo ripudiato la svolta in doppiopetto del Msi, Silvio Ferrari aveva infatti un canale privilegiato con la segreteria di Almirante, con cui aveva cercato di mettersi in contatto prima di saltare per aria. Inoltre, pochi giorni prima della sua morte si era confidato con un poliziotto: un agente di ps mai identificato, potendo appartenere a questure diverse da quella di Brescia, come ad esempio quella di Verona o di Milano (piazze che Silvio frequentava). Lungi dal porre fine a una storia cui è ancora  negata la verità giudiziaria, il mio libro ricompone un mosaico le cui tessere, nell’arco di questi quattro decenni, sono state messe spesso nei punti sbagliati del mosaico, confondendo nel migliore dei casi. Infine, come in nessun altro mio libro il mio coinvolgimento personale è stato così evidente. Fui, fra l’altro, fra gli organizzatori – in quanto segretario dell’allora sezione della Fgci di Salò – dei funerali del “compagno” del Pci Vittorio Zambarda, svoltisi a Salò. Zambarda era appena andato in pensione, e quando morì per le ferite della strage, il 15 giugno successivo, l’Inps non aveva  ancora aperto la sua pratica.

Pino Casamassima