Alere flammam ogni giorno è più arduo; manca il combustibile: ossia la passione. Passione, passione quanta ne avevo e quanta ne ho, non so fino a quando, per il bello, l’arte e la sua storia benché la noia la renda sempre più opaca: meno ardente, più frigida. Vi tedio con la noia perché sono anni, ormai decenni, che si studia, sì che si studia, si propone, si mostrano gli stessi nomi e la noia è esplosa movendo un vento che ha rischiato, seriamente, di spegnere la fiamma.

 

Dotti reportage di “maestrine accademiche”, osannanti inni hanno salutato un’esposizione londinese dedicata alla pittrice italiana Artemisia Gentileschi. Innovativa, chiarificatrice e simili altre “fesserie”. È indubbio che l’Artemisia sia una grande pittrice che ha vissuto una vita intensa, sospesa tra drammi e gloria; ma che si sentisse la necessità di dedicarle un’altra mostra “innovativa” è una mistificazione che puzza di noia e in questo mi sostiene lo scaffale della “mia diga”, occupato da decine di libri e cataloghi a lei dedicati: dal bellissimo romanzo di Anna Banti in poi. Avevamo appena digerito Leonardo, compresa la salsa alla Gioconda, che ci hanno ingozzato, a viva forza, con Raffaello, per non dire del povero Caravaggio cui manca solo uno studio sulla sua avversione per le cozze.

Noia è l’ennesima pubblicazione su edifici di cui manca la demolizione per sapere quanti mattoni s’impiegarono per costruirli, su cicli decorativi riuniti a casaccio in belle, costose, quanto inutili pubblicazioni. Studiare, ricercare, analizzare aree inesplorate è faticoso quanto zappare; lavoro che i miei nonni contadini definivano, con somma saggezza, faticoso e pericoloso. E quando, con infantile ingenuità, chiedevo perché fosse pericoloso, mi rispondevano con malizioso sorriso: rende indifese ed esposte agli attacchi le "terghe”. Noia è il solito Paladino che, con cavalli in marinati come acciughe, sfida, perdendo, i bronzi di Mochi a Piacenza.

Nel silenzio serale “da coprifuoco” mi addormento, provando simpatia e invidia per le marmoree statue dell’attico queriniano che silenti e severe osservano da secoli senza noia il cielo, su l’ennesima pubblicazione locale, dove la storia si fa, con dovizia di note, narrando i passaggi di proprietà di un campo dalla Genesi a oggi e nel Settecento ere coltivato a “formentù”.

Giuseppe Merlo