Sarà per una perversa compensazione psicologica o morale che porta i più a

guardare lontano e tendere la mano a situazioni quasi planetarie.

Il mio rispetto massimo per i profughi, i bambini del terzo mondo, le tragedie

immani dei morti di ogni etnia e terra, ma mi riesce sempre più difficile

comprendere la frettolosa superficialità che ci accomuna quando ci troviamo di

fronte ai mali oscuri, non catalogati, invisibili di persone a noi molto vicine.

Una patologia acclarata, un braccio rotto o una stampella attivano i nostri sensi, ma

un conoscente o amico spesso in silenzio, con lo sguardo basso, a disagio in qualsiasi

situazione non catturano la nostra attenzione e non muovono le nostre emozioni.

Perché tutto questo? Io mi sono data una spiegazione che non sarà certamente

l'unica o la corretta ma almeno mi ha spinta a riflettere, a confrontarmi, a mettermi

in discussione: tutti noi abbiamo paura, terrore del dolore, e percepirlo lontano ci dà

la vacua sensazione di poterlo dominare e circoscrivere. Inoltre, seppur vicini, i

disagi e i dolori derivanti da cause conclamate ci trasmettono una angoscia minore,

diversa, controllata e controllabile.

Allora molto meglio sostenere cause umanitarie di paesi e popoli lontani o essere

vicini a sofferenze e malattie visibili invece di fermare lo sguardo e il cuore e tentare

di indagare oltre.

Oggi il mio pensiero e la mia anima tentano con estrema umiltà di abbracciare e

stringere tutti i silenzi, gli sguardi bassi, i disagi di chi – lontano o vicino – non riesce

o non ha la forza di valicare la dimensione della visibilità e lancio un proposito

comune di vedere una luce diversa anche nel buio di coloro che – nonostante tutto –

continuano a esserci.

Ariel