Nell'edizione del 2014 aveva regalato a Mcl per farne dono a Brescia lo stemma della città- Se ne è andata così una persona tutta dedita al lavoro e all'impegno sociale interpretando i sentimenti della sua gente della Valsabbia (dove era stato anche sindaco del suo paese, Provaglio Valsabbia) attaccatta alle proprie tradizioni, tra le quali eccelleva quella del rispetto e dell'attaccamento alla sacralità degli eventi liturgici. Riportiamo uno scritto su di lui di Alberto Zaina, nel catalogo di alcuni anni  or sono  scultore d'instinto che il senso dell'intagliare e del cavar fuori forme dal legno ce l'ha nel sangue: Massimo Pasini l'ha respirato nei boschi della Valle Sabbia dove da secoli l'uomo rompe a tratti il silenzio con i colpi dell'ascia per avere il legno, supporto indispensabile alla vita quotidiana dei tempi andati quando ancora ferro, cemento e plastica non avevano ancor invaso ogni angolo del mondo. Ma il legno, materia viva e vibrante nelle sue fibre e nei suoi nodi, non serviva solo alla sopravvivenza d'ogni giorno, ma anche ad abbellire l'esistenza. Dall'alto della sua casa di Provaglio, tra il muoversi plastico delle groppe dei monti valsabbini che si ergono sulla valle su cui aleggiano talvolta i fumi azzurrini delle industrie, Pasini fa rivivere l'antico senso della forma dei «Boscaì»: le loro opere sono presenti sia nelle monumentali parrocchiali, sia nei più solitari sacelli disseminati tra prati e boschi. E l'antica tradizione è testimoniata dal nostro scultore nelle figure di putti ed angeli (ne ha scolpiti anche due in sostituzione di quelli originari rubati in una chiesa) dove la mossa ricchezza barocca o l'eleganza settecentesca si rivestono di sapida espressività popolare e trasformano certe leziosità ed arzigogoli di quel tempo in solidità di sostanziose forme e di atteggiamenti affabili e concreti. Ma l'opera scultorea di Massimo Pasini non è solo una odierna riedizione dell'antica arte dei maestri del legno, è anche una ricerca, attraverso le strutture naturali dei tronchi, dei rami, di un connubio tra il conservare le forme spontanee del legno e il trovare quelle espresse dalle sue abili mani: la figura su cui si posa l'aureola-leggìo sgorga dalle radici ed il tronco, che unisce cielo e terra, prende le forme di una Madonna che stringe a sé il piccolo Gesù avvolgendolo teneramente e facendo quasi un tutt'uno con lui; nell'intensità del tenero sguardo della Madre si avverte appena un'ombra di preoccupazione preveggendo il futuro destino umano del Figlio. In opere come questa la semplice vena del sentimento si unisce inscindibilmente alla fede genuina e profonda della gente delle nostre valli.

Il riferimento alla realtà è sempre, per Pasini, un pilastro necessario dell'espressività. E così i suoi volti e corpi sono sempre ben ancorati ad una visione dell'umanità ben salda dove l'individualità, spesso anche minuziosamente descritta di ogni volto, costituisce l'esempio di come sia possibile riconoscere in ognuno, un «tipo» più largamente rappresentativo: il vecchio alpino, l'anziana signora, il fanciullo, ritratti nel legno hanno nomi e cognomi precisi, ma in essi si possono riconoscere tanti altri alpini, fanciulli che si incontrano dove il sentimento di appartenenza ad una gente e ad un popolo è ancor vivo. Nell'indagare tra la realtà popolare che ci circonda e che è portatrice di un'antico stampo ricco di fervidi umori, in quella serie di opere che potremmo definire «episodi», Pasini va scoprendo i lati curiosi del vivere quotidiano cosparso di un pizzico di bonarietà spesso condita con l'ironia ed insaporita da una punta di grottesco, come in Ritorno dalla fonte e II cavadenti; e poi certe figu rette  volutamente goffe come in Raccoglitrice di castagne (che si muove quasi a passi di danza da festa campagnola) paiono quasi far riesumare lo spirito caustico dei nanerottoli di Faustino Bocchi.

L'assiduità istintiva di Pasini con l'esercizio dell'arte della forma ricavata «togliendo», come diceva Michelangelo, lo portano anche ad esiti dove la concretezza realistica del sentir popolare si sposa felicemente con ricordi classicistici: nello Schiavo c'è un qualche ricordo dei «prigioni» michelangioleschi tradotti dall'idioma nazional-fiorentino a quello più rude della parlata dialettale bresciana, mentre nella Donna che si pettina la sodezza delle robuste forme si ingentilisce nel delicato arco del busto e nella delicata trasparenza della veste sul seno.

E infine Massimo Pasini si dimostra ben avvertito degli umori del «moderno» quando semplifica le forme portandole ad esiti di astrazione geometrica, mai svincolandosi, però, dall'indagine del reale: piramidi e cerchi di bianco legno assumono valenze simboliche nella rappresentazione degli umani caratteri, perché la sua arte è sempre radicata nella realtà viva dell'uomo. E lo è talmente che giunge talvolta a tocchi «iper-realistici» . È perciò, la sua, una poesia del «reale» dove nel sapore della tradizione germinano anche gli umori di contemporanei apporti per scavare e scoprire sempre più il significato della vita».

Alberto Zaina