Due occhi azzurri dolci, ma anche vivissimi e determinati: basta incontrare il suo primo sguardo per capire con chi si ha a che fare. Suor Liliana ha vissuto una vita intensa donando se stessa, e le sue competenze, alle persone che ha incontrato nei numerosi anni di servizio: infermiera presso gli ambulatori Raphael di Calcinato, si è fatta carico per anni dei malati terminali, cui ha alleviato le sofferenze del corpo e dell’anima accompagnando loro e i familiari nell’ultimo tratto del cammino terreno. Per ben dodici anni è stata poi superiora generale della sua congregazione religiosa, contribuendo a farne fiorire il carisma tra le consorelle e nel mondo. Una vita intensa, che ha arricchito molte altre vite con il suo aiuto, le sue parole, il suo sorriso.

Ce ne sarebbe abbastanza per poter allentare i ritmi, magari sostenendo con la propria saggezza chi è più inesperto o in difficoltà. Ma suor Liliana non è abituata a fare questi calcoli e, quando sente che c’è una nuova missione da fondare ma non si sa chi potrebbe farsene carico, non ci pensa un minuto di più e si mette a disposizione. Coraggio? Incoscienza? Sfida? Solo amore, insieme a una dose infinita di generosità e altrettanta umiltà, che le fa dire di essere semplicemente uno strumento nelle mani del Signore, di cui si mette a completa disposizione.

Come è nata l’idea di partire? «Non ero mai stata in missione prima, anche se come madre generale le avevo visitate. Durante quei viaggi, in certi momenti di silenzio nella natura africana, avevo pensato che non mi sarebbe dispiaciuto un futuro là. Si trattava, però, di un pensiero custodito nel cuore. Poi, durante l’ultimo capitolo generale tra noi religiose, abbiamo dovuto chiudere una missione nella Repubblica Centrafricana: decisione lacerante, ma del resto non c’erano forze per continuare. E la nuova avventura in Angola era alle porte. Nel corso della discussione una di noi ha sottolineato che dicevamo di voler restare in Africa, ma poi chi sarebbe davvero partita? Mi sono sentita riaffiorare dal cuore quel desiderio e senza quasi pensarci ho esclamato: “Se c’è la possibilità, vado io!”. Mi sembrava in linea con la vita che avevo scelto. Un incarico adeguato alla mia età, certo, e affiancata da altre consorelle, ma ero già pronta e non ho più avuto ripensamenti».

L’esperienza in Angola si apre condividendo il servizio dei cappuccini nel loro centro di Mbanza Congo (capitale dell’antico regno del Congo e di recente divenuta patrimonio Unesco), così da poter contare sul supporto di chi è presente sul territorio ormai da più di 500 anni. Questo permette alle suore di non dover partire da zero: «Non bisogna essere presuntuosi – precisa subito suor Liliana – facendo affidamento solo sulle proprie forze; è invece fondamentale appoggiarci a chi ha esperienza e perciò può introdurre in una cultura così diversa, con lingua, usi e costumi molto lontani».

La piccola comunità composta da due bresciane e una brasiliana viene ospitata dai frati in attesa di trovare una sistemazione indipendente. Le missionarie condividono la preghiera e i pasti con i padri, che le inseriscono nella comunità locale facendo da mediatori quando serve. Dopo un anno trovano una piccola casa in affitto e lì si stabiliscono, raggiunte da una quarta religiosa, originaria dalla Repubblica Centrafricana. Custodiscono il desiderio e il progetto di costruire una Casa Missionaria propria, che segni la stabilità della loro presenza in Angola.

Come si presentano questo Paese e questo popolo, così lontani e diversi? Abbiamo avuto il vantaggio di operare in una struttura già avviata e in un Paese dove la Chiesa cattolica ha molta autorevolezza perché è rimasta vicina alla gente durante la guerra. Ora la guerra è finita, ma c’è una profonda crisi economica. La terra è generosa, ma non basta, perciò c’è sempre fame e sta crescendo la criminalità a causa della disoccupazione. Nonostante tutto, c’è pace sociale, pur con notevoli differenze tra classi, e non esiste estremismo islamico. Lo Stato c’è, anche se magari non riesce a pagare gli stipendi oppure garantisce le vaccinazioni, ma poi non assicura le medicine negli ospedali. Il popolo angolano ha una storia e una dignità, lo si percepisce fin dai primi contatti. Oggi molti vivono le contraddizioni della globalizzazione convivendo tra usanze tradizionali e telefoni di ultima generazione, ma sono consapevoli della loro civiltà ed è proprio questa coscienza a dare speranza per il futuro. I giovani, per esempio, hanno voglia di riscatto, soprattutto se acculturati. Le donne lavorano moltissimo perché si occupano dei campi, della casa e dei figli, con poco aiuto da parte degli uomini; in compenso, hanno sempre l’ultima parola in una famiglia che da secoli è di stampo matriarcale. Il senso di aggregazione è molto forte, perfino nei bambini.

 

In questo processo noi non dobbiamo intervenire, ma accompagnarli affinché loro stessi trovino la propria strada. Anche nelle scelte quotidiane ci muoviamo in questa direzione: per esempio, acquistiamo i prodotti dalle donne sulla strada per incrementare il commercio locale e, per quanto i nostri bambini amino i vestiti che giungono dall’Italia, facciamo lavorare sarte africane. E così via per tutto il resto. Da parte nostra serve equilibrio, discernimento e tanta pazienza, perché i ritmi africani sono diversi dai nostri. La loro flemma all’inizio mi mandava in ansia, ma poi ho visto che riescono a fare tutto anche senza programmare in senso stretto. Per questo non dobbiamo bruciare le tappe, ma piuttosto rispettare i tempi che consentono uno sviluppo dell’originalità, dello spirito d’iniziativa e di attuazione, propri di questa cultura. Il lavoro più duro è proprio questo: noi faremmo più presto se fossimo direttive, solo che non avrebbe senso. In ogni caso, per ora a questa cultura ci siamo solo accostate, c’è ancora molto da leggere e studiare, moltissimo da imparare».

Di cosa vi occupate principalmente? «Abbiamo affiancato i cappuccini che gestiscono un centro per ragazzi allontanati dalla famiglia, attualmente circa 70 ospiti dai pochi mesi ai 18 anni d’età. Sono ragazzi feriti, perché si sentono abbandonati o vivono il peso di accuse di stregoneria, perciò per loro la vita è difficile fin dai primi anni. I bambini vanno a scuola, mentre i più grandi imparano un mestiere per cavarsela quando saranno adulti. Esiste una convenzione con lo Stato per la gestione dell’ente, ma i soldi non arrivano con regolarità e gli operatori devono avere uno stipendio perché hanno famiglie da mantenere. Ecco dunque che diventa indispensabile il contributo di numerosi volontari e benefattori. Al centro insegniamo il rispetto degli orari e delle regole, la pulizia, una corretta alimentazione e curiamo la formazione per tutelare il rispetto di se stessi e della propria dignità prima di tutto. I missionari curano inoltre la pastorale e gestiscono una scuola, un collegio di circa 800 ragazzi, dove due consorelle insegnano: suor Stefania ai preadolescenti e suor Antonia ai bambini».

Qual è il suo ruolo specifico? «Come infermiera gestisco l’ambulatorio del centro, dove tutti gli ospiti in ingresso sono sottoposti a uno screening. Visto il numero dei ragazzi, ogni giorno arrivano nuovi ammalati da seguire. Dobbiamo combattere soprattutto la malaria e la febbre tifoide, con temperature molto alte che debilitano soprattutto i più piccoli. Quasi tutti i giorni c’è qualcuno da accompagnare in ospedale dove, tra prelievi e test, passiamo la mattinata. Per la terapia, che si fa al centro, seguo il protocollo stilato dai medici, un corpo giovane ma preparato e sensibile». Suor Liliana interpreta il suo ruolo a tuttotondo e, oltre che infermiera, diventa anche la mamma che ogni bambino vorrebbe avere vicino quando sta male. «Non manca mai un sorriso e neppure qualche coccola. Ho sempre in tasca caramelle da offrire al momento della medicina e, se si tratta di iniezioni, ne regalo due. Sono momenti molto delicati, in cui confidano le loro paure, l’ansia per il futuro, e raccontano le loro difficoltà affidandosi con fiducia».

Dopo due anni in terra d’Africa si può tentare un bilancio. Ci sono stati momenti di ripensamento? «Ho vissuto e vivo momenti di disorientamento quando misuro un senso d’impotenza di fronte alla sofferenza e ai problemi che ho di fronte: bambini che soffrono ingiustizie, ragazze che non hanno mai avuto la possibilità di andare a scuola, la difficoltà di accesso a beni come l’acqua o l’alimentazione adeguata. Anche il senso religioso, così ricco e profondo di questo popolo, a volte viene manipolato e, per tradizioni negative, usato in forme che provocano sofferenza e ingiustizia nei confronti dei più deboli. Di fronte a tutto questo non è sempre facile comprendere i passi personali e comunitari da compiere per poter crescere umanamente e nella fede insieme a questi bambini e a questo popolo. È il tema del discernimento che, da un lato, ci chiede di scoprire il bene, l’opera di Dio già presente e operante in questa terra e, dall’altro, ci chiede di riconoscere, arginare e combattere il male, l’ingiustizia che chiudono e frenano una crescita e uno sviluppo positivi. Questo “lavoro” a volte è faticoso. Chiede preghiera e superamento della superficialità, tra noi suore discutiamo spesso nella ricerca degli orientamenti da prendere. Mi sembra di poter dire, però, che in questo tempo abbiamo imparato molto e anche migliorato le condizioni dell’ambiente dove viviamo e operiamo».

Nostalgia dell’Italia? «Non molta in verità. Mi mancano un po’ le relazioni con i familiari, le consorelle, le amiche e gli amici. Manca un po’ la possibilità di confronto su temi importanti, anche se i nuovi mezzi di comunicazione sociale aiutano. Confesso che a volte mi viene un po’ di nostalgia a tavola, dei buoni cibi bresciani». A questo proposito, si narra la storia di un prezioso presepio da far arrivare in dono dall’Italia, messo in valigia più volte... e altrettante volte tirato fuori per far spazio a formaggi, salumi e altri beni di primo consumo, introvabili in Africa!

Quali passaggi l’hanno emozionata di più? «Dentro di me, piano piano, è cresciuta una maggior consapevolezza di quanto sia ricca la nostra “cultura italiana” vissuta nella quotidianità. Mi sono resa conto di quanto avevo ricevuto, lungo il corso della mia vita, nel paese, a Calcinato, nella parrocchia, nella vita religiosa, in tante esperienze fatte. In Angola ho incontrato un nuovo e diverso modo – altrettanto ricco e fecondo – di affrontare la vita e i suoi eventi: la nascita, la festa, la famiglia, la malattia, la morte. Mi emoziona la possibilità di entrare in contatto, alla mia età, con questo nuovo universo. Mi emoziona toccare con mano che un riconoscimento rispettoso, uno scambio, un confronto reciproco, possano essere una fonte d’identità vera e una grande ricchezza per le diverse culture. Lo scambio continuo tra Italia e Angola dà il senso che il nostro mondo non finisce con noi».

È una donna diversa rispetto a quando è partita? «Credo di avere un amore alla vita che si è ampliato ancora di più e perciò sento gratitudine per la mia famiglia religiosa che ha avuto il coraggio di intraprendere questa avventura. Del resto, io da sola non farei niente senza una comunità più grande che abbraccia e sostiene».

Qual è la cosa più importante ricevuta e quale quella donata in questa esperienza?  La risposta esce di getto, senza neppure un attimo di riflessione: «Lo sguardo dei bambini, indescrivibile». Poi il pensiero si articola: «Importante è stata, ed è sempre, la ricerca comunitaria, fatta di preghiera, riflessione, ascolto della gente, sintesi (non sempre facile o riuscita), su come essere Missionare Francescane del Verbo Incarnato in Angola e come rispondere nel modo migliore ai bisogni che incontriamo. Questa ricerca continua non è scontata e neppure immediata, ma frutto di analisi e di profonda disponibilità a rimettersi in gioco».

Quali sono le sue paure? «La più grande è che io possa sciupare la possibilità di bene da compiere. Per esempio, non aver imparato la lingua è stato un limite e tuttora mi blocca. Ho scelto fin dall’inizio di buttarmi nel servizio perché le urgenze premevano, ma forse in questo modo ho perso altro. Ho inoltre paura, di fronte al molto diverso da noi, di non cogliere appieno il bene che si può costruire in maniera duratura, sbagliando magari nei modi, in un certo senso paura di bruciare le occasioni».

Vede cambiata la sua vocazione dopo una scelta così radicale? «Direi di no, perché la realtà di fondo è la scelta che ho compiuto quando avevo ventidue anni, concretizzando una chiamata che sentivo possibile fin dall’adolescenza. Naturalmente non è un passo realizzato una volta per sempre, si sceglie infatti ogni giorno di essere suora, e che tipo di suora. Tutti i passaggi della mia vita mi hanno interpellata e mi hanno diretta in un cammino, spero, verso la maturità. Un percorso che ha portato frutto e forse ora... cadranno anche le foglie! Ogni momento si è caratterizzato in modalità diverse di risposta, ma tutto viene dalla consacrazione iniziale e da un rapporto costante con Dio che dà senso a ogni cosa. Sono contenta della scelta fatta nel 1968 e del mandato evangelico che comprende tutto ciò che poi è venuto: “Andate in tutto il mondo...”. Senza questo, si può vivere chiuse e arrabbiate pure in missione, facendo perdere valore a quanto si compie. Allo stesso modo, si può continuare a vivere anche in Italia con questa apertura e consapevolezza. Se dovrò tornare, continuerò la missione da qui in altro modo, perché tutto è evangelizzazione e ovunque è missione».

Suor Liliana ha le idee chiare e i suoi occhi brillanti trasmettono la passione che la anima e una serenità speciale, tranquillizzante. Afferma di arrabbiarsi, qualche volta, e di essere stata definita un temporale che scuote il cielo, ma poi passa subito. Difficile crederle. A me ha trasmesso solo dolcezza, impastata però di determinazione e grande forza d’animo. Ora è già tornata sotto il cielo africano e in questi giorni si prepara ad affrontare la stagione delle piogge. Possiamo seguire la sua avventura sul blog www.emozioniafricane.com o attraverso il sito della sua famiglia religiosa, www.francescaneverbo.org.

Giovanna Gamba