Dopo la tragedia di Stefano Inzoli ed Emanuela Vanorio, dramma della solitudine e della disperazione, che ha profondamente scosso le coscienze di tutti. 

Come è possibile non accorgersi di chi vicino a noi sta sprofondando in un baratro? Perché non riusciamo a evitare tragedie di questo tipo? Come si è arrivati a consumare un dramma simile nel silenzio del mondo circostante? Le domande graffiano e ci feriscono perché non sono certo rivolte ai vicini di casa o ai compaesani, ma coinvolgono ognuno di noi. Parlare di disoccupazione e dei costi della crisi risulta quasi asettico e non ci aiuta a riconoscere la disperazione, che invece è vicina e ha colpito anche i nostri paesi. 

Chi perde il lavoro si vergogna e si chiude, così il silenzio copre squarci sempre più vasti di desolazione, perdita di autostima, senso di inutilità personale e sociale. Anche quando le istituzioni se ne fanno carico, le persone coinvolte vivono il loro dramma nel silenzio, come se fosse una via per conservare la dignità, e il sorriso di Emanuela e Stefano nei casuali incontri con i vicini ha impedito di capire quanto si fosse corrosa la loro speranza. Troppi silenzi, appunto.

Per la verità, il Comune di Nuvolento ha diramato una nota per precisare che i servizi sociali erano stati allertati e la situazione dei coniugi era nota da tempo, al punto che erano stati intrapresi aiuti e benefici a sostegno di una situazione economica estremamente compromessa: contributi per pagare riscaldamento ed elettricità, un voucher lavorativo, pacchi alimentari tramite la Caritas e un tentativo di differimento dello sfratto. Esprimendo cordoglio, però, l'amministrazione dichiara anche la propria impotenza, nonostante gli interventi compiuti.

Forse la rete ha maglie troppo larghe, forse chi sprofonda non sente più la solidarietà del gruppo, come avveniva in passato: del resto, non ci sono più famiglie allargate che tamponano le falle e aiutano a tirare avanti. Ecco, non è un caso che, finché la pensione della madre di Stefano garantiva un minimo di sussistenza, i confini della disperazione sembrassero più lontani.

D’altra parte, dopo che i colpi di pistola hanno squarciato il silenzio, stridono le troppe parole consumate, urlate, accatastate a ripetizione come per bilanciare tutto il non detto di prima. Si parla per capire, per smaltire il dolore, per metabolizzarlo, ma anche purtroppo per strumentalizzarlo, dimenticando la pietà. Inutile fare nomi, le urla fuori luogo stanno ancora risuonando. A questo punto forse occorre tornare al silenzio, non più quello inconsapevole o peggio ancora indifferente; serve invece il silenzio della solidarietà, che ci aiuti a leggere negli occhi di chi abbiamo vicino i bisogni e le richieste di aiuto inespresse. Prima che sia troppo tardi.

Giovanna Gamba